Job hopper sì o no?

Se fino a qualche tempo fa la tendenza dei recruiter era valutare in modo negativo il candidato che avesse cambiato molti posti di lavoro, oggi la prospettiva potrebbe essersi ribaltata per diventare un valore aggiunto.

Non sempre il cambiamento è sinonimo di instabilità, inaffidabilità, mancanza di costanza, mancanza di motivazione. Al contrario il cambiamento potrebbe indicare capacità di mettersi continuamente in gioco, essere aperti al cambiamento, avere l’opportunità di arricchire la propria professionalità attraverso nuove esperienze, nuovi contesti organizzativi e nuove relazioni.

Il job hopper è una persona che persegue il miglioramento continuo, che ha necessità di avere stimoli, che accetta nuove sfide e che lavora per obiettivi (ciò non significa che i soggetti poco affidabili non esistano più) ma accogliere chi salta da un posto di lavoro all’altro può essere visto come un grande valore aggiunto per l’organizzazione, grazie alla contaminazione che può generare a livello di soft e hard skill.

Di contro, non sempre e non a tutti permette di approfondire veramente le competenze perché certi contenuti hanno necessità di percorsi di induction molto lunghi e strutturati per sedimentare. Inoltre, il turn over continuativo compromette l’ingaggio, il senso di appartenenza che caratterizza l’identità di un’azienda.

Il fenomeno ha iniziato oggi a diffondersi soprattutto tra i millennial, che lo utilizzano per assicurarsi stipendi più alti e un posto di lavoro con un miglior life-work balance.

Come sempre, starà alla bravura e alla capacità del recruiter utilizzare la prospettiva corretta nella valutazione del candidato. La più grande abilità di un recruiter è la sua capacità di cambiare le lenti con cui guarda lo scenario definito dal contesto organizzativo, dal mercato, ma soprattutto dalla persona che ha di fronte.

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